Secondo la tradizione propaggine di Selinunte, certamente di antica origine, la sua esistenza è documentata dagli Angioini in poi. Fu assegnata nel 1299 da Federico d’Aragona ai Tagliavia che, per i matrimoni contratti, acquisteranno nel tempo i cognomi Aragona e Pignatelli e reggeranno la città fino al 1812 anno di cessazione della feudalità. Ai suoi signori deve Castelvetrano l’assetto urbanistico suo tipico, i suoi monumenti maggiori: l’imponente Palazzo Ducale (XIII sec., notevolmente rimaneggiato nel tempo) con la superstite torre ottagonale; la Chiesa di San Domenico (1470), eretta da Giovanni Antonio e da Giovan Vincenzo Tagliavia e fatta decorate tra il 1574 e il 1580 da Carlo d’Aragona per la mano di Antonino Ferraro da Giuliana; la Chiesa Madre (1520), decorata nella metà del ‘600 da Antonino Ferraro junior e da Gaspare Serpotta ; la chiesa di San Giovanni (fine del ‘500) con la celebre statua del Santo eseguita nel 1522 da Antonello Gagini; la chiesa del Carmine (1509) con la cappella di Santa Maddalena dei Pazzi a cupola e nicchie angolari neo-bizantine; la chiesa del Purgatorio (sec. XVII-XVIII), con la sua facciata barocca. Esempio unico di architettura civile resta l’acquedotto di Bigini (ne contrassegna la completazione la fontana della Ninfa eretta nel 1615); di questo i cittadini di Castelvetrano andavano e vanno fieri, rappresentando l’approvvigionamento idrico un traguardo di civiltà che numerose altre città dell’isola e fuori a tutt’oggi ignorano.

Epidemie, carestie, guerre funestano la vita della città tra il ‘600 e il ‘700: nel 1624-26 la peste, nel 1647 i tumulti per la carestia, nel 1719-20 la guerra ispano alemanna, provocando una grave crisi che porta a un notevole spopolamento della città (da 15.367 abitanti nel 1653 ai 10.188 del 1722). Ciò nondimeno, nello stesso periodo la città si arricchisce di palazzi (si amplia quello ducale, si ristruttura Palazzo Cuidera, sorge Palazzo Frangipane) e di chiese: Purgatorio (1642), San Pietro (1653), San Francesco di Paola (primi del ‘700). La ripresa economica interessa il secondo ‘700. Nel 1787 la città è visitata da Goethe. Dal 13 marzo al 5 giugno 1813 vi viene relegata la regina Maria Carolina d’Austria prima di partire per l’esilio. L’Ottocento ne vide la partecipazione attiva al moto risorgimentale con squadre di volontari che seguirono Garibaldi, fra questi il celebre frà Giovanni Pantaleo. Nel primo cinquantennio dopo l’unità fu dominata dalla potente famiglia Saporito che molto operò nel dare nuovo volto alla città, munendola dell’unico teatro oggi esistente nella Sicilia occidentale (il Selinus), di ville, di nuova sistemazione dell’Ospedale; di attività industriali pionieristiche nella Sicilia del tempo (mulino a cilindri, pastificio, produzione dell’olio dalle sanse, del sapone, ecc.) mentre il moto dei Fasci, sottolineando il malessere delle classi subalterne, le portava alla ribalta e le preparava a divenire partecipi della vita cittadina all’inizio del ‘900. Il 29 maggio 1875 vi nasceva Giovanni Gentile, il filosofo dell’idealismo attuale, riformatore della scuola italiana, fondatore e direttore dell’Enciclopedia Treccani.

Centro agricolo assai attivo, la città ha dovuto e deve la sua prosperità soprattutto alla coltivazione della vite e quindi alla produzione ed esportazione del vino ed alla produzione delle olive (la celebre nocellara del Belice) largamente esportata e dell’olio. Notevole anche la produzione di ortofrutticoli. Nel secondo dopoguerra ancora sui prodotti dell’agricoltura insiste l’economia castelvetranese e, se si esclude qualche timido tentativo nel metalmeccanico e nel legno (l’industria del mobile vi ha antica tradizione), è soprattutto sul turismo che essa oggi punta, attrezzandosi con alberghi, ristoranti, posti di ritrovo che ormai costellano tutto il litorale tra Belice (la foce riserva naturale) e Triscina, spesso con spiagge incontaminate e mare limpido che fanno del turista il soggiorno ideale. Notevole il Museo Civico, recentemente ultimato, che accoglie reperti selinuntini, il famoso Efebo, una Madonna del ‘400 la cui testa staccabile è attribuita al Laurana.

Le piazze, le vie, i monumenti di Castelvetrano

Il sistema delle piazze Garibaldi, Umberto I e Cavour, tra loro contigue e comunicanti, costituisce il nucleo della Castelvetrano antica. L’articolarsi degli spazi nell’assetto attuale è frutto di rimaneggiamenti ed adattamenti di un unico slargo iniziale che l’ampliamento degli edifici circostanti, Castello e Madrice soprattutto, ha così determinato. Fino alla prima metà del ‘600 il Palazzo dei principi di Castelvetrano conservò l’aspetto di turrito castello, poi subì tali e tanti rimaneggiamenti da perdere completamente l’aspetto di castello per assumere quello di palazzo signorile. Il canonico Vivona che della città ha lasciato una breve “Descrizione”, databile agli inizi dell’800, riguardo al castello così scrive: “….. si trova, quasi tutto riformato, che appena dell’antichità se ne osserva un’alta torre ottagonale, ed alcuni altri pezzi del castello di ponente ed a mezzogiorno … Il castello era quadrato con quattro torri agli angoli, due delle quali sono esistenti [oggi solo una], che sono l’una a greco [l’unica superstite] e l’altra a libeccio; quella che era a scirocco fu smantellata allorchè vi si fondò la Collegiata; e l’altra a maestro di struttura gotica fu pure smantellata modernamente l’anno 1794 …”. Il Polizzi, che verso la fine del secolo scorso illustrò i monumenti di antichità ed arte del Trapanese, riguardo al palazzo Castelvetrano, rilevò come testimonianza di antichità, la torre di Nord-est, “ottagona costruita in piccoli conci, il cui piano è coperto da volta ad otto vele di sesto acuto con costole rilevate negli spigoli” al primo ordine. Contrariamente alle tesi recenti che vogliono attribuire il castello al XIII secolo, egli l’assegnava al XV. Il Gotico dominava nella Castelvetrano di allora: a San Domenico, al Carmine, nella stessa Madrice è possibile rilevare archi, volte, cornici, sagomature che a quello stile si richiamano.

Segno che un movimento intenso di fabbriche interessava la Castelvetrano del tempo, che andava abbandonando l’aspetto di borgo rurale per assumere quello di grosso centro urbano. Altri cambiamenti a metà ‘600, in pieno Barocco: al castello, chiuso in se stesso, subentra il palazzo, aperto all’esterno con ampi finestroni sulle piazze, con un chiesa al primo piano, la Collegiata di San Pietro che, aperta com’era alla piazza e al palazzo, al popolo ed agli appartamenti del principe, sembrava quasi congiungere vassalli e signore. Ma i riti ieratici che vi si celebravano, i ricchi paramenti degli stessi canonici, sbigottivano e meravigliavano il popolo che, in tanta magnificenza, finiva col vedere sempre più lontano quel principe al quale, nella sua stessa dimora, si era tanto avvicinato. G.B. Noto, erudito castelvetranese del ‘700, contava ben 119 stanze nel palazzo, tutte abitabili, raggruppate in quattro appartamenti ognuno dei quali prendeva nome da uno dei personaggi più rappresentativi della famiglia Aragona-Pignatelli che l’aveva abitato. L’ingresso principale al palazzo era ed è da piazza Garibaldi. Attraverso un androne si accedeva ad un ampio atrio interno delimitato da largo porticato con volte a crociera ed ampi archi a pieno centro leggermente ribassati. Vi si aprivano magazzini, scuderie, ma soprattutto le tre scale di accesso agli appartamenti nobili. Pregevole la fontana in marmo che ornava il giardino interno. Intorno alla metà del ‘600 oltre alla Collegiata che veniva addossata al lato di levante, un altro appartamento veniva realizzato, quasi appendice del palazzo verso Madrice e piazza Umberto.

l primo piano fu sede (e lo è tuttora) del Municipio e vi si accedeva per scalinata propria, a secondo piano o “quarto della Galleria” da scale del palazzo. Alla fine del secolo scorso sorsero i tre piani di fabbrica di via Gagini con apposita scala di accesso. La grande volta a botte a tutto sesto che collega la nuova ala al complesso più antico, oltre a dare maggiore profondità a piazza Garibaldi, immettendo nella via retrostante, fa da raccordo al piano del Municipio che si inserisce nella fabbrica a colmare il dislivello che va sempre più accentuandosi muovendo verso la Madrice, talchè il “quarto della Galleria”, che è primo piano muovendo dal palazzo, superato l’arco, diviene secondo piano nella nuova struttura. La Chiesa Madre nasce dal congiungersi dell’antica chiesa di Santa Maria (documentata fin dal ‘300) con l’attigua cappella di Santa Chiara e quella di San Giorgio, base del futuro campanile. La chiesa fu totalmente ristrutturata tra 1520 e 1579. L’impianto è basilicale normanno (tre navate con transetto corto e presbiterio rialzato); carattere medievaleggiante, nonostante lo schema classico d’impianto, presenta il portale nel rivestimento di artigianali arabeschi. Sul fianco settentrionale in piazza Umberto sorge imponente il campanile della Madrice. Tra il ‘400 e il ‘500 se ne era costruito lo zoccolo fino al primo piano e nel relativo vano si era ricavata la cappella di San Giorgio. La costruzione dei piani superiori fino alle finestre, ove sono collocate le campane, venne eseguita nel 1552, anche se non venne completata e manca del coronamento e della merlatura. L’ampliamento, su progetto dell’arch. Giovanni Gandolfo, fu eseguito a spese del popolo ed a cura di don Carlo d’Aragona, feudatario della città, come leggesi nell’iscrizione tufacea sulla porta d’ingresso.

Fontana della Nina si erge nell’angolo a fronte del campanile; fa da fondale a piazza Umberto ed a piazza Garibaldi insieme. L’effetto singolare viene prodotto dalla nuova ala del Municipio che l’ignoto architetto ha saputo inserire con mirabile maestria. La nuova struttura dapprima si avvicina alla Madrice fino a che una breve strettoia non separi i due edifici, poi, passando nella piazza limitrofa, se ne allontana rapidamente. È un gioco di spazi che si restringono e si dilatano, di piani prospettici che si rincorrono e si sovrappongono e che fontana della Ninfa esaurisce e conclude. Di gusto manieristico, espone quattro ordini di vasche e culmina in alto in una nicchia, dentro cui una ninfa sta seduta e regge con una mano un’anfora da cui versa acqua, mentre con l’altra mano regge una cornucopia simbolo di abbondanza. L’opera è attribuita all’architetto e scultore napoletano Orazio Nigrone, come si legge nel bracciale con lettere a rilievo che sta intorno al braccio della ninfa e sulla lapide posta tra la prima e la seconda vasca. Tra le rimanenti vasche, palme stilizzate, emblemi della città. La fontana come spiega la scritta sulla lapide fu realizzata nel 1615 a ricordare il concludersi dei lavori dell’acquedotto di Bigini, la cui fonte, in territorio di Partanna, come un tempo aveva dissetato gli antichi Selinuntini, ora dissetava i Castelvetranesi che ne erano discendenti.

Quinta muraria sul lato opposto di piazza Umberto e piazza Garibaldi, la chiesa della Collegiata di San Pietro crea effetti scenografici simili a quelli della fontana della Ninfa. Piuttosto ampia rispetto a quest’ultima, la Collegiata è peraltro priva oggi di due elementi caratterizzanti che l’ornavano in passato: l’imponente scalone che da piazza Garibaldi dava accesso all’edificio, la torre campanaria oggi monca, ridotta a vano aggiuntivo piatto e scialbo. Ciò nondimeno la chiesa, realizzata nel 1653 per volere del principe don Diego Aragona e Tagliavia e della figlia donna Giovanna, nel contesto delle piazze svolge ancora quell’effetto scenografico che le si volle fin dall’inizio attribuire. Sul lato opposto il Collegio di Maria, la chiesa del Purgatorio, il teatro Selinus. Il Collegio di Maria, funzionante fin dal 1758 come istituto di educazione e di istruzione femminile, retto da suore, è venuto meno ai suoi fini istitutivi fin dal 1889, allorchè per vetustà degli immobili fu fatto evacuare dalle ultime monache e collegine. Ristrutturato fra fine ‘800 e primo ‘900 il pianterreno prospiciente la Madrice (l’ampia sala ed i locali annessi per anni ospiteranno l’ufficio postale e telegrafico), il primo piano fu costruito ex novo nel 1934. Oggi, dopo decenni di abbandono, richiede interventi di recupero non più diffirebili, pena la sua dissoluzione.

La chiesa del Purgatorio fu eretta nel sito di chiesa più antica tra il 1642 ed il 1664. La decorazione a stucco dell’abside fu eseguita nel 1746 dai fratelli castelvetranesi Nicola e Gaspare Curti. All’altare la grande tela attribuita ad Olivio Sozzi (1960(1765) raffigurante “la Trinità, la Vergine e le Anime purganti” (la tela, assieme alle altre della chiesa, è oggi accolta in Madrice). La facciata, eseguita agli inizi del ‘700, sessant’anni dopo circa l’erezione dell’edificio, fu concepita come elemento decorativo più della piazza che della chiesa; lo conferma il verticalismo che si volle imprimere alla stessa, erigendola più stretta di quanto la chiesa non fosse (la prima cappella di via La Masa non è coperta dalla facciata), ravvicinando le porte laterali alla centrale (per cui esse appaiono decentrate rispetto alle corrispondenti navate), accentuando il movimento ascensionale degli elementi architettonici che la compongono. Otto lesene strette e snelle, slanciate dai plinti di sostegno, scandiscono l’ordine inferiore della facciata, incorniciando le porte d’ingresso e le due nicchie con statue di santi; dalla trabeazione a triglifi e decori floreali con balaustrata emergono solo la zona mediana e quattro delle otto lesene ad inquadrare l’ampia finestra centrale e le due nicchie con anime purganti. Il movimento culmina in alto al centro nel gruppo di angeli sopra il cornicione reggenti la Croce, gruppo che il sisma del ’68 ha diroccato, smorzandone lo slancio, e che occorre ripristinare se si vuole restituire alla chiesa il suo ruolo nel contesto della piazza. Qui infatti, tra San Pietro e Purgatorio, la piazza tende a restringersi, pertanto la torre campanaria di San Pietro da un lato, la facciata slanciata del Purgatorio dall’altro fino a qualche tempo fa concorrevano a chiudere scenograficamente gli spazi, cosi come era accaduto dal lato opposto tra Madrice e Palazzo Municipale. Oggi il risultato è meno vistoso (specie perché il campanile di San Pietro più non esiste), ma il richiamo è palese. D’altronde, dopo San Pietro, la piazza torna ad ampliarsi in quello che fu denominato in passato “Largo delle Botteghelle”, per restringersi definitivamente laddove inizia via Garibaldi. Il gioco degli spazi che si restringono e si dilatano è dunque ripetuto e gli effetti scenografici che ne seguono riproposti.

Ad accentuare questi risultati dalla fine del secolo scorso concorre pure l’imponente Teatro Selinus che sorge attiguo alla chiesa del Purgatorio, da cui è diviso dalla stretta via La Masa. Qui, nel 1873, sindaco Giovanni La Croce, furono avviati i primi lavori di fabbrica, in parte demoliti, in parte modificati sotto la sindaca tura di Giuseppe Saporito, allorchè si affidò la progettazione all’arch. Giuseppe Patricolo, affinchè desse vita ad edificio di maggiore grandiosità ed imponenza. Il Patricolo, infatti, noto restauratore di monumenti, specie normanni, adottò linee e moduli costruttivi arieggianti i grandiosi templi dorici di Selinunte. La struttura muraria fu completata nel 1908. Il teatro presentava 1000 mq. di superficie occupata, 300 mq. di platea, 180 mq. di palcoscenico, 29 palchi, due cavee. Nell’aprile 1910 il pittore castelvetranese Gennaro Pardo consegnava il grandioso sipario (m. 10 x m. 7) riproducente Empedocle fra i Selinuntini per la bonifica delle acque stagnanti. Finalmente, dopo la prima guerra mondiale, a partire dal 1919 e per la durata di circa 15 anni, il teatro ebbe il suo periodo di maggiore fortuna, con spettacoli lirici, operette, compagnie di prosa e varietà che si alternavano con successo sulle sue scene. Nel 1931 assunse il nome di “Selinus” per volontà dell’allora podestà Tondi. Nel secondo dopoguerra conobbe momenti di progressiva decadenza fino a chiudere i battenti per riaprirli, dopo reiterati interventi di restauro, soltanto nel dicembre ’84. Mentre lo stile dorico dell’edificio ancor di più inserisce Castelvetrano nel contesto culturale ed ambientale in cui sorge (la colonizzazione dorica trova nella vicina Selinunte la punta estrema della sua espansione in Occidente”, la sapienza e le capacità professionali del Patricolo seppero giustapporre le antiche linee alle esigenze del teatro moderno. All’esterno, nella massa compatta dell’edificio, egli inserisce un pronao a quattro colonne d’ordine dorico, che si eleva sopra uno stilobate a gradinata.

Trabeazione con triglifi e timpano gli fanno corona. Il raccordo tra il vestibolo rigorosamente classico e la sala con platea, orchestra, file di palchi ecc. è talmente razionale, le linee talmente classiche e sempre rigorosamente doriche che nessun contrasto è dato cogliere, nonostante lo iato di secoli, tra i due mondi. Allo scultore trapanese Leonardo Croce, chiamato a modellare le cariatidi del palco principale, nessuna libertà fu concessa, costretto ad attenersi fedelissimamente al disegno di puro stile classico fornito dall’architetto. Per altro, aderendo perfettamente ai modelli selinuntini, le cariatidi furono scolpite in pietra di Billiemi, ma il volto e le estremità, ossia le parti nude del corpo, in marmo, a somiglianza delle metope del tempio E di Selinunte. Il peristilio di 16 colonne doriche, situato nell’ordine delle cavee, ripropone gli schemi antichi non solo sotto il profilo stilistico, ma anche funzionale. L’ardita copertura del teatro è lignea ed è data da otto capriate disposte radialmente con testate innestate nel muro perimetrale e convergenti poi in un unico monaco centrale. Ebbene il peristilio, costituito dalle 16 colonne reggenti un architrave continuo, costituisce un secondo appoggio per le capriate e nei templi dorici la presenza di un secondo ordine di colonne di proporzioni più piccole di quelle collocate sullo stilobate, deputate a sostenere le coperture, è in più occasioni documentato (valga per tutti l’esempio del maggior tempio di Pesto, mentre a Selinunte una situazione analoga si riscontra al tempio G nella doppia fila di colonne, sicuramente a più ordini, all’interno della cella). Anche se gli edifici prospicienti le tre piazze appartengono ad epoche diverse e agli indirizzi architettonici più disparati (tardo-gotici, rinascimentali, manieristici, barocchi, neo classici), pure, nelle piazze di Castelvetrano, quel che domina comune e dà omogeneità nella diversità all’insieme è la misura, l’equilibrio, il senso delle proporzioni e, se non manca la ricerca dello scenografico e qualche forzatura si avverte nella facciata del Purgatorio, questa è compensata dalla linearità e semplicità delle altre fabbriche. Il passaggio poi dalla polifunzionalità dell’antico slargo medievale alla distribuzione di ruoli ben precisi ad ognuna delle quattro piazze (col tempo quella che oggi chiamiamo piazza Principe di Piemonte verrà aperta ed aggregata alle precedenti) razionalizza il ruolo e la destinazione di ognuna.

Le frazioni di Marinella e Triscina

Località balneari di grande afflusso turistico negli alberghi e sulle spiagge bellissime, dominate dall’acropoli e dai templi selinuntini. Marinella è anche borgo marinaro e vanta porticciolo per l’attracco di barche pescherecce e natanti da diporto.

Cave di Cusa

Si trovano a circa 10 km da Castelvetrano (3 da Campobello, 13 da Selinunte). Offrono al visitatore l’idea immediata delle tappe di estrazione della pietra, con tamburi di colonne ancora attaccati al suolo, pronti per essere estratti ed avviati a Selinunte.

Spettacoli e folklore

La città assicura al visitatore numerose manifestazioni che sulle tradizioni del passato si innestano così pure spettacoli che al Teatro Selinus, nella stagione invernale, e al Parco Archeologico di Selinunte, in quella estiva, annualmente si rappresentano. Al folklore castelvetranese si legano la funzione dell’Aurora, la celebrazione dell’Ascensione e del Sacro Cuore di Maria a Marinella, la fiera della Tagliata.

Aurora

Nella principale piazza della città (Piazza Garibaldi) la mattina di Pasqua, di buon’ora, ricolma di folla proveniente anche dai paesi vicini, si svolge l’incontro tra il Cristo risorto (il simulacro si colloca ad un estremo della piazza) e la Madonna (collocata all’altro estremo): messaggero un angelo. Questi, dopo avere ripetuto per tre volte alla Madonna incredula che il Cristo è risorto, la convince a muovere incontro al figlio. Le due statue dagli estremi della piazza si vanno così avvicinando, l’angelo in mezzo. A distanza ravvicinata la Madonna, riconosciuto il figlio, perde il manto nero, compare in abiti dai vivi colori, colombe sfuggono in cielo dalla sua corona; le due statue si accostano in corsa, la banda intona musiche festose.

Ascensione

È credenza locale che la notte dell’Ascensione un angelo passi nel cielo e benedica le acque: chi si immerge nelle acque di Selinunte quella notte può trarre salutari benefici ai suoi acciacchi. E la gente accorre alle spiagge attratta da grande speranza. Sacro Cuore di Maria. Nella penultima settimana di agosto si celebra la festività del Sacro Cuore di Maria a Marinella. Fra le tante manifestazioni caratteristica la “sardiata”, cioè scorpacciata di sardelle (pesce azzurro) alla brace, offerta dai marinai del posto a tutti i presenti. La festa culmina con la processione a mare della Madonna, con le barche dei pescatori, parate con luminarie, che le fanno corteo. Al tramonto, nell’orizzonte rosso del mare, con i templi nello sfondo, lo spettacolo è suggestivo.

Fiera della Tagliata

Nella terza settimana di settembre, al santuario della Tagliata nei pressi della città, si celebra la ricca fiera dello stesso nome, un tempo di grande importanza per le varie compravendite che vi si svolgevano: dagli animali (cavalli, muli, ecc.) agli utensili della campagna e della casa. Alla fiera avvenivano le “conoscenze” per futuri matrimoni, alla fiera si arrostivano sulla brace le salsicce, dopo che per tutta l’estate era stato bandito dalle mense.