Strade del vino: le Terre Sicane

Una terra arsa, pietrosa, dagli echi letterari “gattopardeschi” quella che ospita Santa Margherita del Belìce e Menfi. E’ qui, da vigneti che corrono verso il mare, che nascono vini dai sapori decisi e dalle connotazioni fortemente mediterranee. Come quelli della cantina Settesoli.

La Sicilia ha nomi di paesi altisonanti, lirici quasi, e mai banali. Da Messina, porta dell’isola e attracco obbligato per chi arriva dal continente, per andar giù verso la Valle del Belice nella parte della Trinacria che si tuffa nel Mar d’Africa, a Palermo è d’obbligo uscire dall’autostrada e virare in direzione Sciacca. Attraversata la suggestiva vallata dello Jato, la strada statale 624 scorre in rassegna, uno dietro l’altro, luoghi dai nomi evocativi come Piana degli Albanesi, Roccamena, Contessa Entellina, Salaparuta. In questi toponimi vi sono incidenze greche, romane, arabe, spagnole, arbëreshë: millenni di storia cioè scanditi dalla cartellonistica stradale.

Verso le terre del Gattopardo

Una viabilità, quella sicula, che ha riscritto a modo suo la geometria: qui sulla 624 così come altrove, le linee rette infatti, sono bandite e la strada si dipana lungo infiniti tornanti ripidi e sinuosi che in appena 80 km riescono a toccare 4 province, Palermo, Trapani, di nuovo Palermo e infine Agrigento. Per chilometri e chilometri, nei dintorni della carreggiata, non v’è traccia di abitati: solo paesaggi arsi e montagne pietrose, bellissime, che sembrano uscite dritte da uno spaghetti-western di Sergio Leone. Poi è l’indicazione Santa Margherita di Belìce – che rievoca reminiscenze gattopardiane: qui visse infatti la sua infanzia il principe-scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa e proprio in questi luoghi ambientò il suo romanzo più famoso, al quale la città ha dedicato un bellissimo parco letterario – a  svelarci che siamo giunti nella valle del fiume Belice, cuore martoriato (dal terribile sisma del ’68) della Sicilia sud-occidentale e oggi area vitata di prima grandezza. Quasi 9 mila ettari di vigne di cui 2/3 appartenenti alle Cantine Settesoli, la più grande azienda vitivinicola a proprietà interamente siciliana. Qui, la strada del vino si fa chiamare Terre Sicane e fluisce lungo dolci colline inframezzate da incantevoli bagli (le antiche masserie fortificate) e pettinate dai vigneti siciliani più classici come Grillo, Grecanico, Nero d’Avola, dagli autoctoni Inzolia e Catarratto, dal campano Fiano d’Avellino, che da queste parti ha trovato una nuova terra d’elezione, da cultivar internazionali perfettamente acclimatati quali Syrah, Merlot, Cabernet-Sauvignon, Viognier e Chardonnay.

Menfi, capitale del vino

Se Santa Margherita del Belìce, regno dei fichidindia, è la soglia d’ingresso delle Terre Sicane, Menfi ne è l’avamposto centrale, il punto di confluenza della cultura (e della pratica) enologica che pregna il territorio. In questo paesone ricostruito per intero dopo il terremoto, ci accoglie subito piazza Vittorio Emanuele III, ampia, assolata, e, come avrebbe detto Garcia Lorca, “buona per duelli e funerali”. La domina da un lato il secentesco Palazzo Pignatelli e dall’altro un incantevole belvedere affacciato sul tappeto di vigneti e carciofeti che separa Menfi

da Portopalo, litorale tutto calette nascoste, riserve naturali, spiagge di ciottoli bianchi e mare cristallino premiato 12 volte Bandiera Blu. Poco distante dalla piazza, in una traversa del corso Garibaldi, c’è l’enoteca Strada del Vino Terre Sicane: una sorta di sancta sanctorum del vino menfitano dove, all’interno di Palazzo Planeta (appartenente all’omonima cantina fondata da Diego Planeta, l’uomo che per anni è stato il deus ex machina delle cantine Settesoli e, forse, di tutto il comparto vitivinicolo locale), la sommelier Erina Migliore fa un pò da custode solenne dei vini e, più in generale, dei sapori caratteristici delle Terre Sicane, guidando visitatori e appassionati in affascinanti percorsi sensoriali, attraverso degustazioni, cene a tema e incontri coi produttori. «Dietro ogni bottiglia di vino ci sono anche le persone – ci spiega Erina – il nostro compito è valorizzare questo patrimonio umano e divulgare la cultura enologica locale». Al vino, del resto, i menfitani sembrano legati in maniera viscerale e in particolare a quello della cooperativa Settesoli che ha saputo riscoprire le vocazioni vinicole delle 7 contrade del territorio, assecondandone le peculiarità. Tra Santa Margherita, Montevago e Sambuca di Sicilia, esistono altre 8 cantine, in buona parte gestite da giovani che sono tornati a vinificare, «per raccogliere – dicono – i frutti della nostra terra».

Cchiù in alto si va…

Qualcuno, evocando altre zone vinicole d’Italia più celebrate, si è spinto a ribattezzarlo “Menfishire” questo fazzolettone di terra fertile, fatto di colline levigate e di natura incontaminata, dove le vigne digradano verso il mare conferendo ai vini sapori decisi e connotazioni fortemente mediterranee. Ma Menfi, in vero, non è solo vino. Qui si vive di agricoltura a tutto tondo, si produce olio di qualità grazie a cultivar autoctone come Nocellara, Cerasuola e Biancolilla, si recuperano colture perdute come il carciofo spinoso di Menfi oggi diventato presidio Slow Food e (assieme ai peperoni) eccellente materia prima per l’industria conserviera locale, e si rispetta profondamente la memoria delle civiltà che per secoli hanno coltivato queste contrade. «Vede? In questo pianoro che da anni appartiene alla mia famiglia, secoli fa gli arabi coltivavano le carrube. Per loro, un frutto di carruba era una unità di misura equivalente a 1/5 di grammo. Ecco perchè ho chiamato questo posto Khirat, in arabo appunto carrubo»: così ci racconta Nicola Napoli, albergatore e fine appassionato di storia locale e di enogastronomia, mentre ci mostra le meraviglia del suo Khirat, un country residence resort costruito secondo canoni di bioedilizia ed ecosostenibilità, che immerso nella quiete della campagna di Menfi, sovrasta dall’alto una distesa di vigne e ulivi che declinano sulla spiaggia di Portopalo, distante giusto qualche chilometro in linea d’aria. Lì, nel borgo marinaro bagnato dalle acque del Canale di Sicilia, trova origine la cucina locale più verace che nella pasta con uova di pesce sampietro ha il suo pezzo forte e in quella al pomodoro con la sarde, una variante gustosa del più tipico dei piatti siciliani. A completare degnamente la tavola, ci pensa quindi la vastedda, il caratteristico pecorino della Valle del Belice, unico formaggio di pecora a pasta filata dell’isola. Ma per gustarlo al meglio bisogna salire su, verso i paesi più alti come Sambuca di Sicilia, perchè come dicono qui gli anziani «cchiù in alto si va, cchiù è buona la vastedda».

Di: Francesco Condoluci

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